L’ABORTO NEL CANONE PĀLI E NEI TESTI DEL PRIMO BUDDHISMO

Introduzione

Nel Canone pāli e all’interno dei testi del primo Buddhismo non esiste una esplicita condanna dell’aborto[1]. Le fonti ne evidenziano tuttavia la gravità, adombrando una connessione fra la pratica abortiva e la rottura del principio della non violenza. Questo caposaldo si estende a ogni forma di vita ma consegue un valore particolare se riferito all’uomo. Sui motivi per i quali l’aborto implica la distruzione di una vita umana, intesa quale esistenza senziente e autonoma nella sua dignità, mi sono già soffermato in precedenza. Ricordo soltanto che per l’embriologia buddhista la vita umana comincia con la fecondazione e anzi, se teniamo in considerazione i fattori del kamma e della cosiddetta “rinascita”, le fasi embriologiche diventano unicamente separazioni convenzionali all’interno di un processo unitario. In altri termini la vita costantemente si riproduce in nuove forme senza poter stabilire un punto di inizio assoluto. Sul piano di una ricostruzione genealogica, McDermott contestualizza l’antiabortismo buddhista nel panorama culturale indiano. L’autore fa presa sulla condizione di santità della vita che l’Induismo celebra per embrione e feto, concezione che il Buddhismo eredita all’interno di una sua specifica liturgia. In numerosi Jātaka e in diversi passaggi dei commentari post-canonici viene menzionato il rito di  gabbhaparihāra, tecnica sacra di protezione del feto e in grado di assicurare alle donne incinte un kamma positivo. Attento soprattutto al Dasaratha Jātaka e ai suoi intrecci con l’epica del Rāmāyaṇa, McDermott osserva come  il rituale descritto nel Jātaka altro non sarebbe che il contraltare buddhista di due cerimonie nate in seno all’Induismo: quella conosciuta con il nome di garbhadhāna[2], letteralmente un rito che prende a protezione l’impiantarsi dell’embrione nell’utero, e il punsavana, ovvero la benedizione del terzo mese.

Kamma e aborto

Nelle fonti antiche il discorso embriologico sopra accennato si stacca dalla valutazione dell’aborto sebbene esso continui a rappresentare il fondamento implicito dell’antiabortismo buddhista. I testi si concentrano invece esplicitamente sulle conseguenze kammiche per i laici che attuano l’aborto e su un punto di vista regolamentare inerente al codice di condotta monastica.

Quella del Canone pāli è una società che accetta la poligamia, pertanto l’aborto diventa spesso strumento di vendetta all’interno di conflitti tra mogli. Parliamo di lotte in cui l’aborto è l’arma per colpire la moglie più giovane e fertile che, attraverso la gravidanza, rischierebbe di privare l’altra donna, o gli eventuali figli di questa, dello status acquisito in precedenza. Una seconda classe di motivazioni è legata alla necessità per la donna di occultare gravidanze nate da adulterio. Le tecniche utilizzate vanno dalla pratica con i veleni a metodi meccanici che prevedono forti colpi portati all’utero. Si menzionano inoltre tecniche per alzare la temperatura dell’utero e l’utilizzo di poteri magici in grado di disturbare il normale decorso della gravidanza.                                                                     In che modo i testi dipingono la gravità dell’aborto?  Il Canone Pāli e i suoi commentari fanno presa sugli inquinanti spirituali a fondamento dell’intenzione di abortire. Questi sentimenti sono anche ciò che minaccia il destino kammico degli individui coinvolti nell’aborto, compreso il nascituro e questo in considerazione delle sofferenze psico-fisiche cui egli viene sottoposto nell’atto di abortire. I sentimenti in questione si riassumono nella vendetta, in un senso di odio verso il feto e nella paura. A quali conseguenze conducono queste emozioni? Nel Mahāniraya esiste un fiume, chiamato Vetaraɲī, dalle acque taglienti come rasoi che accoglie i corpi di coloro che hanno oppresso il debole o che si sono macchiati di aborto[3]. Il commentario al Dhammapada offre poi una storia ricca di intrecci sulle conseguenze dell’aborto. Viene fatto il caso di due donne sposate con lo stesso uomo. Per due volte consecutive la moglie sterile somministra, in modo occulto, pozioni abortive alla donna fertile. Con la terza gravidanza quest’ultima sembra farsi più scaltra cercando di nascondere il suo stato fino all’ultimo momento possibile. Quando la condizione tuttavia arriva a manifestarsi nella sua chiarezza, la donna sterile torna a escogitare preparati abortivi. Questa volta, complice forse lo stato avanzato della gravidanza, il veleno provoca la morte anche della madre. Nell’atto di morire quest’ultima scaglia tutto il suo odio verso la nemica augurandosi di rinascere in forma di orchessa e di divorare i figli della rivale. Il desiderio accende un meccanismo di retribuzione kammica in cui, volta per volta, la vittima rinasce per vendicarsi della progenie distrutta. La storia ha termine soltanto quando colei che era stata la donna sterile riappare al mondo come giovane madre minacciata da un’orchessa, ovvero la prima donna fertile, desiderosa di mangiare i figli della rivale. Sāvatthi, questo il nome della madre minacciata, si rivolge allo stesso Buddha perché questi metta in salvo l’ultimo figlio rimastole dopo che l’orchessa aveva già divorato i primi due. Buddha elargisce a quel punto un insegnamento che, non soltanto salverà il bambino, ma pone fine al ciclo delle rinascite. L’odio, dice Buddha, può essere vinto soltanto dall’amore, ovvero dal suo contrario[4]. Questa rivelazione induce le due nemiche a riappacificarsi liberandosi dalla bramosia di ulteriore vendetta. Nel Petavatthu I.6 si ripercorre lo schema fin qui seguito. Una donna gelosa provoca l’aborto dell’altra moglie del marito. La rinascita in forma di fantasma, costretto a mangiare la sua stessa progenie, è tuttavia la conseguenza di un dato aggiuntivo rispetto alla classica vicenda di odio e vendetta. La donna aveva infatti giurato il falso discolpandosi di fronte al marito che l’accusava di aver provocato l’aborto. Una vicenda simile occorre nel Petavatthu I.7. Qui l’aborto provocato riguarda un feto di tre mesi, mentre nel Petavatthu I.6 si fa riferimento a un feto di due. Nonostante la differenza di età le sofferenze cui la donna colpevole va incontro sono le stesse di quelle descritte per l’uccisione del feto più piccolo. McDermott sottolinea l’importanza di questo dato. Esso conferma l’esistenza di una stessa condizione di santità e inviolabilità della vita nel corso dei primi tre mesi dalla fecondazione. Più in generale la similarità fra i racconti si inserisce in un contesto dove nulla pare aggravare l’aborto in relazione allo stadio evolutivo del nascituro[5].

 

Aborto come infrazione della regola monastica

Quando un religioso consiglia l’aborto o, addirittura, consegna preparati abortivi egli minaccia l’integrità della regola monastica. Questa purezza è la condizione di esistenza del sangha nel mondo. L’aborto ha pertanto una ricaduta disciplinare che i testi evidenziano: “ Un monaco non può deliberatamente privare alcun essere della vita, si trattasse soltanto anche di una formica. Quel monaco che dovesse privare un essere umano della vita-anche nell’eventualità di causare un aborto-non potrà essere più un rinunciante e non più un seguace del Buddha[6]. A commento di un passaggio simile tratto dal Canestro della Disciplina, Buddhaghosa ricorda che il divieto di uccidere un uomo include l’embrione sin dal suo primo stadio evolutivo[7]. L’ammonizione di Buddhagosa completa e rende più esplicito quanto osservato a proposito del Petavatthu. Lungo questa linea il  Vibhaṅga riconosce l’inviolabilità dell’embrione e siffatta concezione viene oggi utilizzata nel The buddhist monastic code per chiarire come il principio della non violenza riguardi anche gli istanti immediatamente successivi alla fecondazione[8]In che modo  un appartenente all’ordine monastico può essere coinvolto nell’aborto? Secondo la casistica indicata dal Vinaya Pitaka a un monaco può succedere di consigliare o addirittura fornire preparati abortivi; il suo l’intervento può determinare la morte soltanto del feto; accidentalmente quella della madre ma non del nascituro; la fine di entrambi oppure, se il preparato fallisce, la sopravvivenza di madre e figlio. Il giudizio disciplinare previsto dal Canone valuta ogni volta la qualità dell’intenzione in rapporto ai risultati conseguiti. Se ne deduce, per esempio, che l’uccisione volontaria del feto sarà più grave del caso in cui questo si salvi con la perdita, accidentale, della madre. A colpe diverse corrispondono più tipologie di punizione, fino all’espulsione dall’ordine.

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[1] Alla voce gabbha , utero  ma anche termine indicante l’embrione e il feto, il dizionario on-line della P.T.S. così traduce il concetto di aborto:” (…) gabbhaŋ pāteti to destroy the foetus Vin ii.268”. Sotto la voce Pātana si trova inoltre questa indicazione: “Pātana (nt.) [fr. pāteti] bringing to fall, destroying, killing, only in gabbha˚ destroying the foetus, abortion (q. v.) DhA i.47 and passim”. Per quanto concerne la distinzione concettuale fra embrione e feto, eventualmente significativa ai fini di una valutazione della pratica abortiva, essa sembra perdere di importanza di fronte all’unità di significato rappresentata dalla parola gabbha. Il Pāli conosce tuttavia un termine specifico per indicare l’embrione nelle sue prime fasi di sviluppo: kalala. Quanto apprendo dal dizionario della P.T.S. mi fa pensare che la parola abbia un valore strettamente embriologico e che non influisca sulla valutazione dell’aborto. http://dsalsrv02.uchicago.edu/cgi-bin/philologic/getobject.pl?c.1:1:376.pali

[2] Ancora nelle moderne correnti dello Shivaismo il garbhadhana è la tecnica sacra per santificare concepimento, momenti cruciali della gravidanza e nascita cfr. J.P. McDermott, Abortion in the Pāli Canon and Early Buddhist Thought, p. 163

[3] J.P. McDermott, op. cit., p. 157

[4] Ivi p. 158

[5] Ivi p. 160

[6] Il passo, tratto dal Mahākhandhaka all’interno del Mahāvagga del Vinaya Pitaka, viene citato da McDermott ( p. 164 ).

[7] Embrione qui viene reso con il termine kalala. Cfr. J.P. McDermott p. 164

[8] Sull’argomento si esprime chiaramente Bhikkhu Subhuti nel suo blog: http://subhuti.withmetta.net/2016/12/05/buddhism-and-abortion/